27.4.13

"Papà, da grande voglio fare il Presidente"

È ormai da due mesi che seguo i corsi qui all’università di Warwick, ed è giunto il momento di fare qualche raffronto, di quelli cinici che piacciono tanto a me. Innanzitutto, la prima cosa fondamentale da sapere sull’università inglese, è che è completamente diversa da quella italiana.


Qui non esistono le lezioni come siamo abituati a conoscere, quelle di minimo 2 ore durante le quali il prof, dall’alto del suo scranno, ti infonde la sua sapienza, e tu prendi appunti come un amanuense. O meglio, ci sono, con qualche variante, nel senso che, come già detto, è tutto molto più easy e rilassato, con il prof che proietta le slides mentre sorseggia il suo caffè americano. E tra presentazioni Power Point e diorami interattivi, mi immaginavo Palazzo Nuovo, dove avere l’elettricità durante l’esame di informatica è già un successo.

Alle lectures (le lezioni propriamente dette) si affiancano i seminars, delle vere e proprie discussioni in classe tra professore e studenti, un confronto, insomma da pari a pari sull’argomento della settimana.

Lati positivi e lati negativi di questo sistema? Dimenticatevi l’Italia, dove si studiava la settimana prima dell’esame. Qui si studia sempre. Perché ad ogni seminar sei invitato (praticamente obbligato) a dire la tua. Bellissimo. Anche se, a volte, quando apro bocca per dire la mia, non posso fare a meno di chiedermi: ma in fondo, di quello che penso io sulla questione del commercio di schiavi nell’America Latina durante la conquista del Nuovo Mondo, a chi importa? Ed è qui che sbaglio. Questo è il retaggio italiano più vecchio e resistente. Per troppo tempo siamo stati abituati a non dover avere un’opinione, a sottostare alle regole di classe. Potremmo mai permetterci in Italia di dare una nostra personale visione critica dell’opera leopardiana? Non sia mai, devi seguire rettamente le orme dei professoroni e ripetere come pecore idee che magari neanche ti appartengono. Poi, forse, se ti sei fatto una posizione, alla giovane e acerba età di 60 anni puoi permetterti di dire la tua. Qui no. Anzi, ti incentivano a formarti una tua personalissima opinione, che ognuno rispetta come Vangelo.

Perché qui, la formazione dei giovani è presa molto sul serio. Già in fasce i genitori iniziano a pianificare nel dettaglio il futuro del proprio pargolo che, sono certi, diventerà qualcuno. Se da noi un bambino dice “Papà, voglio diventare tennista”, il padre, sghignazzando sotto i baffi, gli risponde: “Sì sì tesoro, certo. Allora puoi fare il tennista dalle 16 alle 17 di sabato pomeriggio, durante la solita lezione settimanale. E che ti basti e avanzi”. Qui, a queste parole, pronti, a comprare l’intero set del perfetto tennista, a pagare lezioni private, a cercare contatti, agganci per farlo diventare una star.

Poiché sono i giovani il nostro futuro, qui si investe veramente su di loro. E ognuno qui ha una missione: arrivare al successo. E per farlo comincia a pensarci dall’infanzia, scegliendo addirittura l’asilo privato ad hoc senza aver frequentato il quale non puoi accedere alla tal prestigiosa università. Ho conosciuto un ragazzo inglese, qui al college, che studia ingegneria e italiano. E quando gli ho domandato il perché di questa strana accoppiata, lui mi ha placidamente risposto: “Perché voglio lavorare nella Ferrari”. Chapeau.

Qui la realizzazione professionale è tutto. E a volte diventa addirittura un’ossessione. I professori pretendono. Pretendono tanto. Anche da te che inglese non sei e, come dire, la lingua non la parli proprio con fluidità. Ma a loro non importa, sono abituati all’internazionalità, dunque non fanno distinzioni. Se manchi ad un seminar, nota disciplinare. Se non consegni una relazione, voto 0, senza possibilità di salvazione. Non si scherza qui. Se non stai al passo, non sei adatto a questa scuola. Perché la loro filosofia è spiegata nelle parole del mio professore il primo giorno di lezione: “Se non riesci a essere il primo, cerca di essere il migliore”.



Originariamente scritto in data 25/11/2011 su www.giovaninrete.it, La mia valigia Erasmus 

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